Una roadmap per ridisegnare il futuro del settore tessile in Europa
L’impatto del settore tessile in Europa e nel mondo è davvero significativo. Ecco perchè l’Unione Europea ha invitato tutti i cittadini e gli attori del settore a proporre una rodmap d’azione per passare da un modello lineare di produzione a un modello circolare.
di Gianfranco Bongiovanni
Passare dal modello di produzione e consumo lineare a quello circolare e climaticamente neutro in cui i prodotti sono progettati per essere più durevoli, riutilizzabili, riparabili, riciclabili ed efficienti sotto il profilo energetico. È questo l’ambizioso obiettivo che UE si è prefissata di raggiungere con la “Strategia dell’UE in materia di prodotti tessili sostenibili”. Una vera e propria roadmap avviata lo scorso gennaio con l’invito rivolto a tutti i cittadini europei di inviare commenti e proposte sulla strategia.
Le risposte all’invito non sono tardate ad arrivare con ben 229 commenti giunti da ogni parte d’Europa. A mobilitarsi: singoli cittadini, imprese, organizzazioni di categoria del settore tessile europeo che hanno voluto partecipare attivamente al dibattito sul futuro del tessile in Europa facendo emergere i nodi da sciogliere e avanzando proposte volte soprattutto a snellire ed omogeneizzare la legislazione dei paesi membri.
L’attenzione del legislatore europeo al comparto del tessile è spiegata dai numeri: 160.000 imprese con 1,5 milioni di persone impiegate, con un fatturato annuo che nel 2,19 ha superato i 162 miliardi di euro. Oltre agli aspetti economico e occupazionale, a preoccupare l’UE è il ruolo di “divoratore” di materie prime non rinnovabili che il settore rappresenta: quarto, in questa non edificante classifica, dopo food, edilizia e trasporti e quinto per emissioni di gas climalteranti.
Seppure l’UE non si caratterizzi come principale produttore di materiali tessili, gioca sicuramente un ruolo importante quale importatore.
Basti pensare che in media ogni cittadino europeo consuma 26 kg di prodotti tessili pro capite all’anno e di questi ben 11 kg vengono scartati ogni anno. Questi dati sono il frutto di una politica di produzione e immesso al consumo che, soprattutto nell’ultimo ventennio, ha visto il boom della cosiddetta moda fast fashion che ha orientato i consumi verso prodotti meno resistenti e durevoli, con ampio utilizzo di fibre sintetiche, che ha prodotto un rapido ricambio dell’armadio del consumatore.
Secondo un’indagine di McKinsey & Co, infatti, oggi si acquista il 60% in più di abiti per utilizzarli molto meno rispetto a quanto si facesse quasi vent’anni fa.
Nel 2020, il volume di tessili raccolti separatamente nell’UE a 27 Nazioni è stato stimato tra 1,6 e 2,5 milioni di tonnellate. Una tendenza che è destinata a crescere con l’introduzione dell’obbligatorietà della raccolta differenziata del tessile a partire dal 2025 in conseguenza dell’applicazione della Direttiva (UE) 2018/851 del Parlamento europeo e del Consiglio. Si stima che tale misura comporterà un aumento del 79% del volume di tessile raccolto in tutta l’UE con ulteriori 2,1 milioni di tonnellate da gestire.
Le tendenze di consumo di questi ultimi vent’anni hanno generato dunque una crescita esponenziale dei tessili post consumo, abbassando nel contempo la qualità del materiale raccolto da destinare al riutilizzo, ovvero ad essere collocato sul mercato del second hand per allungarne il ciclo di vita. La percentuale del tessile post consumo raccolta e successivamente preparata dagli impianti di smistamento per essere reimmessa sul mercato come usato rappresenta circa il 65% di quanto raccolto, percentuale destinata a scendere se non si interverrà sulla qualità dei prodotti immessi al consumo.
I temi della durabilità e qualità dei materiali utilizzati per la produzione sono, non a caso, centrali nel dibattito tra gli operatori siano essi raccoglitori, riutilizzatori/riciclatori. Ed è su questo che l’UE sta cercando d’intervenire con la sua iniziativa, soprattutto attraverso l’Eco-design ovvero la fase di progettazione del prodotto, spingendo verso la creazione di prodotti più facili da riutilizzare, riparare, riciclare.
A testimoniare l’urgenza di affrontare il tema qualità è EuRIC (The European Recycling Industries’ Confederation) che rappresenta gli interessi a livello europeo dell’impiantistica di preparazione per il riutilizzo e riciclo.
Nel suo Position paper, con il quale ha partecipato al processo di consultazione Ue, cita un recente studio “Bvse Textilstudie” dal quale emerge come oltre l’87% dei raccoglitori di indumenti usati in Germania, lamenti un abbassamento della qualità del tessile raccolto a causa dei materiali di cui sono composti i vestiti e del loro scarso stato di conservazione, cosa che ne inibisce l’effettivo riutilizzo/riciclo.
La bontà dell’iniziativa di raccogliere separatamente i tessili post consumo si scontra però, come sottolineano gli operatori del settore, con una carenza impiantistica per ciò che riguarda la capacità di smistamento per favorire il riutilizzo e di un’adeguata tecnologia capace di recuperare la frazione destinata invece al riciclo industriale.
Secondo uno studio della Ellen MacArthur Foundation meno dell’1% dei prodotti è riciclato per generare fibre recuperate da reimpiegare nella produzione tessile. Una dispersione di risorse che, sempre secondo lo studio, avverrebbe in maniera significativa già nella fase di produzione con oltre il 12% delle fibre scartato durante le fasi di lavorazione. Mentre un quarto dei capi prodotti resterebbe invenduto.
Alla luce di questi dati il legislatore ha introdotto anche per il tessile la Responsabilità estesa del produttore per far sì che chi commercializzi, produca, importi prodotti tessili si assuma gli oneri finanziari e/o organizzativi per gestire il fine vita del prodotto sostenendo i costi della raccolta differenziata, comunicazione, ricerca, preparazione per il riutilizzo e riciclo del tessile.
Schemi chiari e condivisi sull’EPR, End of Waste e invenduto potrebbero ridisegnare il futuro del settore tessile in Europa a patto che tutti gli attori siano paritariamente coinvolti e chiamati a dare il proprio contributo in base al ruolo svolto lungo tutta la catena del valore e nel rispetto delle priorità dettate dalla gerarchia europea per una corretta gestione dei rifiuti.
Un settore fortemente impattato dalla diffusione del COVID-19 potrebbe cogliere l’occasione per accelerare un processo di trasformazione, in parte già in atto, per rispondere alla domanda del domani che vede tre consumatori su cinque considerare sempre più il tema sostenibilità per orientarsi nelle sue scelte di consumo.
Un tema, quello della sostenibilità ambientale e sociale d’impresa che Humana ha abbracciato fin dalla sua nascita e che resta centrale nelle sue scelte. Alla base di questo impegno ci sono due obbiettivi concreti: modificare gli stili di vita e di consumo; rispettare il mandato solidaristico affidatole dai cittadini con le loro donazioni.
I due macro obbiettivi sono profondamente legati. Cambiare gli stili di vita significa infatti prendere atto delle marcate disparità tra i Nord e i Sud del Mondo ed operare affinché tale divario venga ridotto, come recita il payoff di Humana, a partire da “piccoli gesti che trasformano il mondo”. Il piccolo gesto di affidare i propri indumenti usati a Humana, da parte dei cittadini dei Paesi a reddito più elevato, innesca infatti una rete di valorizzazione di quel gesto che garantisce la realizzazione di oltre 1.450 progetti di sviluppo e di raggiungere oltre 12 milioni di persone nel Sud del Mondo.
Garantire trasparenza ed eticità lungo tutta la filiera degli indumenti usati dovrebbe essere dunque imperativo categorico di tutti gli operatori del settore per non interrompere questo “fil rouge solidale” che contribuisce anche al raggiungimento di obbiettivi ambientali altrimenti impensabili per una raccolta che affonda le sue radici proprio sull’attivazione delle persone nel sostegno di progetti di solidarietà.
Secondo una ricerca quantitativa CATI su un campione rappresentativo di 1.000 intervistati realizzata da Target Consulting per conto di Humana People to People Italia, i driver principali che spingono il cittadino a donare i propri indumenti usati sono: la finalità sociale e la garanzia di una destinazione sicura insieme ad una corretta gestione del ciclo di vita dell’indumento post consumo. Valorizzare l’elemento solidale, laddove questo elemento sia rendicontabile e verificabile, contribuisce dunque a migliorare la qualità e quantità del raccolto da destinare ad effettivo riutilizzo, con benefici ambientali oltre che solidali rilevanti.
Per dare concretezza a queste richieste Humana ha affidato la verifica dell’intera filiera degli indumenti usati ad un ente terzo indipendente come Bureau Veritas, azienda leader a livello mondiale nei servizi di controllo, verifica e certificazione della qualità del sistema, ed adottato già a partire dal 2017, unico caso nel settore, il modello “E.S.E.T.” acronimo di filiera Etica, Solidale, Ecologica e Trasparente.
Il processo di cambiamento è in atto e alcuni Stati membri stanno dando vita a programmi di sostegno e finanziamento del settore TAM (Tessile, Abbigliamento Moda) e tra questi c’è l’Italia con il Ministero dello Sviluppo Economico, INVITALIA e i fondi del PON IC 2014-2020. (Per maggiori dettagli si consiglia la visione della Newsletter 46 – Marzo 2021 – “Edizione Speciale Fashion”)
L’adozione della nuova strategia da parte della Commissione è prevista per il terzo trimestre del 2021 e per rendere sostenibile il cambiamento gli elementi fin qui evidenziati non potranno essere trascurati. In questa sfida siamo tutti chiamati in causa e le scorciatoie come l’uso di azioni di green washing per affermare la propria vocazione sostenibile non sono più consentite ma saranno messe alla prova dei fatti.